Stiamo assistendo ad un’inedita condizione esistenziale per queste generazioni di cittadini con un modificarsi inatteso nelle età e nei contenuti di una dimensione depressiva esistenziale che agisce in chiave diversa a seconda delle capacità di resilienza degli individui, delle famiglie, della collettività. Le capacità di resilienza, spontanea od appresa, di queste soggettività individuali e collettive determinano l’esito di questo trauma continuato nel tempo nella costituzione socio-psico-biologica delle persone.
L’operare psichiatrico dal 1978 ad oggi si è profondamente arricchito di pratiche culture e strumenti di intervento cambiando contesti, metodi, strumenti, leggi, processi e percorsi di cura. Si sono ovviamente creati filoni di ricerca in tutte le direzioni possibili che approfondivano prospettive di approfondimento diverse sulla salute mentale. Tali approcci scientifici frequentemente si sono istituzionalizzati in “scuole” che hanno costruito limiti spesso divenuti muri tra “ortodossi” ed “eretici”. Nella ricaduta clinica, spesso purtroppo, per usare una intelligente espressione di Marco Vaggi, “si è cercato di forzare le persone in cura nelle tecniche disponibili nei servizi”.
Certo snobbismo scientifico frequentemente deplora il “sapere di non sapere” ovvero la formazione all’ascolto, alla vicinanza, al vincolo relazionale (Enrique Pichon Riviere) al dialogo aperto (Jaakko Seikkula) alla gentilezza come direbbe Eugenio Borgna, d’altro canto certo snobbismo umanistico nella concezione della irripetibilità della condizione umana evita dimensioni che vadano al di là di un approccio privatistico, anche nel servizio pubblico, alla cura.
Crediamo che tali “difese” istituzionali nascano da una dimensione ideologica individualista che eviti l’addentrarsi nei termini del soggetto collettivo (Diego Napolitani) di Vincolo (Enrique Pichon Riviere: Teoria del Vincolo) ed in ultima analisi di complessità (Edgar Morin).